Italico ingegno: all’ombra dell’Union Jack
Il lavoro degli italiani in Eritrea nel periodo dell’occupazione inglese (1941/1951). Il piano britannico era chiaramente quello di cancellare l’impronta dell’amministrazione coloniale italiana.
“Italico ingegno all’ombra dell’Union Jack” è il titolo di un breve e brillante saggio sulla storia economica degli italiani d’Eritrea sotto l’occupazione britannica. Il periodo va dall’aprile del 1941 al settembre del 1951. Il volume, edito da Edizioni Cinque Terre, 113 pagine in tutto (10 euro), è firmato da Nicholas Lucchetti, dottore di ricerca in Storia, che si occupa di colonialismo e storia locale, socio dell’Associazione per gli Studi Africani in Italia.
Si tratta di un lavoro estremamente dettagliato nella ricerca e nei dati che fornisce, con ottime fonti anche eritree. Vorrei dire che è un libro che merita di essere letto da tutti gli italiani che amino la loro storia e desiderino capire che rapporto abbiamo avuto con l’Africa coloniale. Un suggerimento che trova una sua più forte motivazione nella vita economica e sociale odierna. Le nostre città, anche le più piccole e marginali, conoscono ormai l’immigrazione degli africani. Cinquant’anni fa molti degli italiani non sapevano nemmeno dove fosse il Corno d’Africa nella cartina geografica. Oggi l’Africa è sotto casa e, anche se siamo rimasti piuttosto ignoranti sulle cose loro, ci ritroviamo costretti ad avere un rapporto con gli africani, le loro vite, le loro abitudini, il loro cibo e il loro vestire, e a dipendere da loro per molte delle nostre attività, affatto secondarie.
Tema centrale del libro di Nicholas Lucchetti è sostanzialmente lo stato economico della colonia primigenia e soprattutto il lavoro degli italiani in quella stessa colonia, nel periodo più difficile, quando gli italiani d’Eritrea si ritrovarono in pochi mesi da colonizzatori e padroni di casa a prigionieri degli inglesi. Molti italiani finirono nelle prigioni del Kenya, del Sud Africa, della vicina Somalia e dell’Australia (e sovente per anni), non pochi persero la vita a causa della malaria e altro. Su questo periodo esiste in Italia una abbondantissima letteratura di pubblicazioni private e diaristiche. Altri italiani più fortunati poterono rimanere nella ex colonia e contribuire alla sua ripresa economia che, di fatto, fu molto interessante sotto numerosi punti di vista e non ancora sufficientemente studiata. Ricordiamo che il Canale di Suez era stato chiuso, quindi l’ex colonia che solo ad Asmara aveva accolto sino a 80 mila italiani emigrati (anche se il termine dal fascismo era stato bandito, in quanto ci consideravamo cittadini di quella terra che era considerata una seconda patria) non poteva più approvvigionarsi di materiali e merci.
Come poterono gli italiani non solo sopravvivere più che bene, ma addirittura inventare nuove attività e nuovi prodotti, come testimoniano alcune importanti esposizioni internazionali dell’epoca? Come ben dice il titolo, si trattò di ingegno italico, pur sotto il frustino degli inglesi. Grande lavoro e altrettanto grande creatività e fantasia nel risolvere i problemi.
L’autore pesca a fonti di archivi e di giornali sia italiani che eritrei e struttura il suo saggio in cinque capitoli. Il primo capitolo verte sulla politica economica italiana in Eritrea ai primi del secolo con il suo portato di piccole e medie industrie che si andavano formando nella scena locale. Il secondo capitolo pone l’attenzione sul grande impegno economico dovuto al dinamismo mostrato dalla comunità italiana durante l’occupazione inglese che fu poi celebrato già nel 1943 con una Mostra tenutasi nella capitale eritrea. Il terzo e il quarto mettono in luce l’impegno profuso dalla comunità italiana per la produzione e le esportazioni e il parallelo smantellamento di tutta una serie di rilevanti infrastrutture costruite nel periodo coloniale e la requisizione di beni mobili e immobili ad opera dei britannici, contrastata senza successo. Il quinto capitolo parla dell’importante Esposizione svoltasi nel 1951 ad Addis Abeba e del destino economico della comunità italiana negli anni della Federazione eritreo-etiopica, dopo il 1951.
Il fervore della vita economica già si sente nel porto di Massaua, ben descritto dalle parole del giornalista Mario Appelius: “Navi, navi, navi. Un bagliore di alto forno. Una temperatura di serra tropicale. Mosche. Zanzare. Fragore. Movimento. Urla di siriene. Fischi di locomotive”. Siamo nel 1935: “Chi sbarcava merci brontolava contro chi le lasciava ammassare nelle banchine. Chi doveva sgomberare le banchine brontolava contro la ferrovia e contro gli automezzi che non arrivavano a portar via i materiali. Tutti brontolavano e tutti lavoravano”.
I settori forti, quello agricolo, il cotone, il sale, le perle, le pelli, le banane e il caffè. Ciononostante la colonia arriva velocemente al fallimento sia economico che razziale. La stessa requisizione delle terre a favore dei coloni fu un fallimento, perché non tenne conto delle leggi locali consuetudinarie ignorandole completamente (terreni creduti liberi, perché non coltivati, in realtà sottostanti a una legge che si chiamava restì).
Fu così che con l’arrivo degli inglesi, gli italiani rimasti o sfuggiti alla prigionia si trovarono costretti ad inventarsi una nuova economica, ma – ahimé – privi di materie prime e di mezzi. Il racconto delle attività promosse in quel periodo è sorprendente. Le storie che Nicholas Lucchetti ha raccolto sono interessantissime. Si tratta di una serie di indovinati esperimenti che definisce autarchici. Sorsero in breve ad Asmara e dintorni, nonostante la guerra, calzaturifici, cartiere, saponifici, fabbriche per la produzione di prodotti farmaceutici e chimici, aziende per la lavorazione del vetro e del legno. Alcuni esempi. Nel 1942 Luigi Melotti, già in Eritrea nel 1935 come ingegnere capo del Genio Civile, compie una serie di esperimenti per la produzione della birra. In breve conquista il mercato eritreo, ma anche quello etiopico e quello di Aden. Lo slogan pubblicitario grida: “Chi beve birra Melotti, campa cent’anni e rotti”. Questo birrificio esiste ancora ad Asmara, proprietà del governo. L’ingegnere Aldo Maderni, già in Eritrea dal 1938, decide di rigenerare dei cerini avariati giacenti ad Asmara da anni. In poco tempo riesce a produrre da 15 mila pezzi nel 1944 a 200 mila pezzi nel 1946. La Mostra delle attività produttrici dell’Eritrea che si tiene ad Asmara in Corso Italia, già viale Mussolini, nel 1943, di cui all’archivio Diplomatico della Farnesina si trovano ancora i cataloghi con tutte le descrizioni degli stand italiani e anche indigeni, è un trionfo che mette in luce una miriade di nuove lavorazioni, dalle pelli, ai legnami, all’olio di merluzzo e di fegato di squalo, alla soda caustica, ai profumi, alle candele, alle ceralacche. Gli stessi indigeni, ex sudditi africani, vi sono ben rappresentati con i loro lavori, ormai pronti ad esprimere una sorta di nazionalismo che li spinge a sentire gli italiani come immigrati e a desiderare di capovolgere la storia e ad esprimersi contrari ad un ritorno della dominazione italiana.
Sull’onda di questo successo nasce nel 1944 l’Aepe, l’Associazione per l’esportazione dei prodotti eritrei, lo stesso già citato Melotti in missione commerciale ad Aden presenta un nutrito campionario di prodotti tra cui aceti, creme e lavori in alluminio di industrie eritreee. Per non parlare delle conserve di pomodoro esportate a Bengasi e il cotone grezzo inviato in Etiopia. Tra le aziende agricole quelle di Giacomo De Ponti che in 150 ettari produceva dura, erba medica, agrumeti, pascolo per bestiame, oltre ad un caseificio. Tra Cheren e Tesseni, il sistema di canalizzazione e idraulico era stato curato in modo eccellente. L’avvocato Carlo Matteoda sulle Pendici Orientali cura una azienda agricola coltivata ad agrumeti e frutti tropicali, granoturco, dura, ortaggi e granaglie. Basterebbe leggere gli scritti di Eldo Infante, nato in Argentina nel 1903 in Eritrea dal 1936 come addetto al Corpo Sanitario del Governo dell’Eritrea, direttore del Laboratorio di Igiene e Profilassi dell’Ispettorato della Sanità, autore di una monografia di oltre 550 pagine, nella quale passa in rassegna le principali realtà italiane del panorama industriale eritreo. L’attività italiana prende ancora più importanza se confrontata con gli ostacoli del periodo, ingigantiti dal fatto che dopo il 1945 i britannici puntarono più al totale soffocamento dell’economia italiana. Nel 1948 iniziarono le violenze degli shifta, banditi locali, con assalti alle aziende agricole, aggressioni e feroci delitti. Un capitolo a sé Nicholas Lucchetti lo dedica alle demolizioni e alle requisizioni degli inglesi. Secondo uno stile già che noto gli inglesi smontarono e portarono via numerose attrezzature di rilevante peso economico per l’Eritrea. Un esempio per tutti, la teleferica Massaua-Asmara, definita un “vero e proprio monumento dell’ingegno e dell’operosità di Roma in Eritrea”. L’elenco delle demolizioni fu denunciato in più occasioni da Sylvia Pankhurst, grande avversaria della presenza italiana nel Corno d’Africa, che sottolineò come gli interventi dei britannici avrebbero arrecato pesanti effetti all’economica dell’intera regione. Tra gli atti citati lo smantellamento del cementificio di Abd El Cader e la vendita dei macchinari in Sudan, l’abbattimento di 75 edifici tra cui varie radio, un ospedale, un bacino galleggiante, due gru, 400 edifici di lusso, e altre fabbriche che qui non possiamo elencare. A questo si aggiunge la requisizione di beni di privati che nulla avevano a che fare con le esigenze delle truppe di occupazione. Stagione contraddittoria, quella inglese, conclude Nicholas Lucchetti, per i suoi aspetti coloniali e imperialisti. Il piano britannico era chiaramente quello di cancellare l’impronta dell’amministrazione coloniale italiana.
L’ultimo brevissimo capitolo, che chiaramente lascia aperte le porte ad un proseguimento del lavoro di indagine storica, è dedicato all’Esposizione di Addis Abeba del 1951 che vide la partecipazione di numerose ditte italiane ancora attive in Eritrea. Tra di loro Melotti e De Nadai, che curava l’esportazione dall’Eritrea di prodotti ortofrutticoli e che nel 1952 aveva un giro d’affari di 30 milioni di dollari etiopici, proprietario di una propria agenzia marittima e quattro navi frigo. La società di Tullio Camerino, presente in Eritrea dal 1938, aveva ottenuto dal governo il diritto di raccolta della foglia di palma dum lungo il fiume Barca per vent’anni. Il libro si chiude senza giudizi né considerazioni, credo giustamente in quanto la ricchezza di informazioni e di dati sulle azienda apre la porta ad altre analisi future per meglio comprendere quel difficile e contrastato ventennio che tanto ha segnato la storia italiana. Sempre di Nicholas Lucchetti suggeriamo la lettura anche del libro di Italiani d’Eritrea. 1941-1951 una storia politica” (Aracne, Roma 2012) e anche l’articolo apparso su “I sentieri della Ricerca”, rivista di storia contemporanea (settembre 2009), intitolato “Frammenti di vita postcoloniale negli articoli del Quotidiano eritreo”. Un lavoro illuminante su numerosi aspetti del rapporto con gli inglesi, ispirato alla cronaca giornalistica dell’epoca.
di Paola Pastacaldi – Scrittrice e giornalista
(http://www.paolapastacaldi.it/document.php?DocumentID=699)